La nuova legge regionale del Lazio in materia di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti

A distanza di dodici anni dalla Lombardia (l. reg. n. 15/96) e sulle orme di altre Regioni che hanno già provveduto in materia (Emilia Romagna, v. l. reg. n. 11/98; Piemonte, v. l. reg. n. 21/98; Veneto, v. l. reg. n. 12/99; Campania, v. l. reg. n. 15/00; Liguria, v. l. reg. n. 24/01; Basilicata, v. l. reg. n. 8/02; Calabria, v. l. reg. n. 19/02; Sicilia, v. l. reg. n. 4/03), anche il Consiglio regionale del Lazio ha approvato “disposizioni per il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti” con la nuova legge n. 13 del 21.4.2009, in vigore dal 6.5.2009.

Il nuovo testo, di iniziativa del Consigliere Antonio Zanon (PD), persegue l’obiettivo (già previsto dalle precedenti norme in materia) di “limitare il consumo di nuovo territorio attraverso un più efficace riutilizzo, nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche degli immobili, dei volumi esistenti nonché di favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici”.

In altri termini, come si legge nella relazione che accompagnava la proposta di legge, le nuove disposizioni vanno a colmare un vuoto legislativo e tendono ad attenuare le difficoltà di nuovi spazi abitativi nel territorio regionale.

In tale prospettiva sono definiti sottotetti, “i volumi sovrastanti l’ultimo piano dell’edificio o di sue parti, compresi nella sagoma di copertura, che, all’atto del rilascio del relativo titolo abilitativo, non siano stati computati come volumi residenziali” (v. art. 1).

L’articolo, così come formulato, non è di semplice interpretazione.

Le espressioni piuttosto generiche ivi utilizzate inducono a far ritenere che nella categoria dei “volumi sovrastanti l’ultimo piano dell’edificio” vadano incluse tutte le cubature comunque sovrastanti l’ultimo piano, ivi comprese pertanto gli eventuali lavatoi, i locali precedentemente utilizzati per collocare i serbatoi dell’acqua, etc. .. anche se non propriamente definibili quali “sottotetti”.

Tale interpretazione sembra peraltro più consona a garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla legge, altrimenti, difficilmente attuabile in Comuni – come ad esempio Roma – in cui scarseggiano gli edifici muniti di sottotetto in senso tradizionale.

Sotto il profilo in esame, non si comprende perché sia stato eliminato dal testo approvato l’espresso riferimento ai “locali utilizzati a carattere individuale, quali lavatori, i serbatoi per l’acqua potabile”, etc. … presente invece nel secondo comma dell’articolo 2 della proposta di legge (n. 263 del 20.4.2007).

Si segnala, infine, che nella passata legislatura era già stata presentata una proposta analoga (n. 710/04), ma la stessa non è stata approvata nei tempi previsti.

Prima di analizzare in modo più dettagliato le disposizioni in esame, va premesso che le stesse non si applicano:

– all’interno delle zone territoriali omogenee “A” previste dall’art. 2 D.M.LL.PP. 2.4.1968 (ovvero “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di esse, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”; v. art. 7 co. 1);

– nelle ulteriori zone territoriali omogenee nonché a determinate tipologie di edifici che i Comuni hanno la facoltà di indicare entro 180 gg. dalla data di entrata in vigore della legge n. 13/09 (v. art. 7 co. 2).

Al di fuori delle zone suindicate, invece, l’intervento di recupero in esame può essere realizzato anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali adottati o vigenti ed ai regolamenti edilizi vigenti (v. art. 7 co. 3).

Fermo quanto sopra, l’intervento di recupero è ammesso alle seguenti condizioni.

a) Anzitutto è necessario che il volume da recuperare sia esistente alla data di entrata in vigore della legge (6.5.2009; art. 3 co. 1).

Sembra evidente pertanto che le nuove disposizioni non lascino spazio a sopraelevazioni (in tal senso, v. relazione allegata alla proposta di legge).

b) È, poi, richiesto che il volume da recuperare sia attiguo o comunque annesso ad un’unità immobiliare ubicata nel medesimo edificio (art. 3 co. 1).

Non è agevole comprendere la ratio di tale condizione posto che dalla lettura complessiva del testo si evince che sono comunque consentiti interventi diretti a realizzare “nuove unità immobiliari” (a titolo esemplificativo, v. art. 3 co. 3).

c) L’edificio, all’interno del quale è ubicato il sottotetto, deve essere stato realizzato legittimamente ovvero condonato in base alla normativa vigente in materia di sanatoria di abusi edilizi (v. art. 3 co. 1, lett. “a”) con la conseguenza che non sono ammessi interventi di recupero all’interno di immobili abusivi.

Stando al tenore della formulazione, la legittimità dovrebbe riguardare solo la realizzazione del fabbricato e non eventuali interventi successivi.

Il dubbio che sorge, invece, è se la disposizione in esame, nella parte in cui fa riferimento agli immobili condonati, sia di stretta interpretazione o meno.

Nel primo caso, infatti, andrebbe esclusa l’applicabilità delle disposizioni introdotte dalla l. n. 13/09 ai fabbricati per i quali sia stata presentata domanda di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, ma il relativo procedimento non sia ancora concluso con conseguente ingiustificata penalizzazione delle situazione in cui il ritardo sia dovuto all’Amministrazione che ancora non ha provveduto sulla richiesta del privato.

d) Specifiche indicazioni sono poi contenute in rapporto alle altezze dei volumi che si intende recuperare.

L’altezza media interna netta “deve essere fissata in 2,40 metri per gli spazi ad uso abitazione, riducibile a 2,20 metri per gli spazi accessori o di servizio” (v. art. 3 co. 1 lett. “b”) con la possibilità di un’ulteriore riduzione a m. 2,20 anche per gli spazi ad uso abitativo nei comuni montani (id.).

La legge, in proposito, precisa che:

– ove il solaio sovrastante, o una sua porzione, non sia orizzontale, tale altezza va intesa come la “distanza tra il solaio di calpestio ed il piano virtuale orizzontale, mediano tra il punto più alto e quello più basso dell’intradosso del solaio sovrastante ad esso” (id.), in questo caso, l’altezza della parete minima non può essere inferiore a m. 1,5 ed a m. 1,3, rispettivamente per gli spazi abitativi e per gli accessori/servizi (v. lett. “d”);

– nei locali con soffitto a volta, l’altezza media è calcolata come “media aritmetica tra l’altezza dell’imposta e quella del colmo della volta stessa, misurata dal pavimento al loro intradosso con una tolleranza fino al 5 per cento; il rapporto aeroilluminante deve essere pari o superiore a un sedicesimo” (v. art. 3 co. 1 lett. “c”).

Anche la disposizione in esame non appare molto chiara. Stando alla formulazione del titolo dell’art. 3 (“Condizioni per il recupero”) ed all’espressione utilizzata dal primo comma (“Possono essere recuperati … qualora sussistono le seguenti condizioni”) le altezze indicate dovrebbero essere quelle minime richieste per la realizzabilità dell’intervento. Il testo della lettera in esame però lascia adito a qualche dubbio utilizzando, invece, la diversa formulazione “l’altezza media interna … deve essere fissata” per cui sembrerebbe quasi che i limiti riportati possano indicare l’altezza massima raggiungibile.

Al di là della formulazione piuttosto imprecisa, stando alla ratio della legge in esame (recupero di volumi esistenti) ed alla tipologia dell’intervento (ristrutturazione edilizia) sembra preferibile la prima interpretazione.

Le disposizioni successive sembrano confermare tale interpretazione.

La lett. “e” dispone, infatti, che gli eventuali spazi di altezza inferiore ai minimi indicati devono essere chiusi mediante opere murarie o arredi fissi, fatta eccezione per i casi in cui vi siano fonti di luce diretta; mentre il co. 2 consente, al fine di raggiungere l’altezza media prevista dalla lett. “b” e “c”, l’abbassamento dell’ultimo solaio e la conseguente modifica della quota d’imposta dello stesso (“a condizione che non incida negativamente sulla statica e sul prospetto dell’edificio e che siano rispettati i requisiti minimi di agibilità dei locali sottostanti”).

In tale contesto, non appare chiaro invece quanto statuito dal co. 1 lett. “f” che consente modifiche delle altezze di colmo e di gronda “unicamente al fine di assicurare i parametri fissati dalla presente legge” considerata la genericità della disposizione in esame che non contiene indicazioni sui limiti entro i quali sono consentite le modifiche ivi indicate.

Per realizzare l’intervento di recupero in questione, qualificato in termini di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3 co. 1 lett. d) del d.p.r. n. 380/01, cd. T.U. Ed. (ovvero, “insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, ivi compreso “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti” nonché la “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma”; v. art. 4 co. 1), è necessario il rilascio del relativo titolo edilizio (v. art. 3 co. 1 l. n. 13/09 nonché art. 10 co. 1 lett. c T.U. Ed.).

Lo stesso comporta il versamento del contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione previsto dall’art. 16 T.U. Ed., calcolato sulla volumetria resa abitabile secondo le tabelle approvate da ogni Comune per le opere di nuova costruzione (v. art. 4 co. 2), fatta salva la possibilità per i Comuni di prevedere una maggiorazione del 20% (v. art. 4 co. 3).

Agli oneri suindicati vanno aggiunti i seguenti ulteriori importi:

  • il costo base di costruzione per metro quadrato di spazio da utilizzate come parcheggio (ove l’intervento comporti la realizzazione di nuove unità immobiliari e non sia possibile reperire spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dagli strumenti di pianificazione comunale, con un minimo di 1 mq./10 mc. ed un massimo di mq. 25; v. art. 3 co. 3 e 4); tale onere non è dovuto solo se l’intervento sia realizzato all’interno degli immobili di edilizia residenziale pubblica di proprietà del Comune o degli A.T.E.R. (v. art. 3 co. 5);
  • la somma corrispondente alla monetizzazione (in base ai costi correnti di esproprio all’interno dell’area considerata) di superfici idonee a compensare gli standards urbanistici mancanti, ove l’intervento di recupero sia realizzato in deroga ai limiti fissati dal D.M. 2.4.1968 cit. (v. art. 7 co. 4).

L’intervento di recupero – che consente anche la possibilità di aprire finestre, lucernari e porte – oltre ad assicurare il rispetto delle caratteristiche architettoniche dell’edificio (anche tenuto conto della zona entro cui ricade) nonché delle prescrizioni igienico-sanitarie previste per l’agibilità dei locali (v. art. 5) deve garantire l’isolamento termico, il risparmio idrico, il ricorso a fonti energetiche rinnovabili ed il recupero delle “tradizioni costruttive biosostenibili” ai sensi degli artt. 4, 5, e 6 l. reg. Lazio n. 6/08 (recante disposizioni in materia di architettura sostenibile e bioedilizia; v. art. 6).

Si segnala, infine, che ove l’intervento comporti la realizzazione di nuove unità immobiliari, le stesse dovranno essere destinate alla locazione a canone concordato per almeno otto anni (fatta salva l’ipotesi in cui vengano utilizzate come prima casa da un parente in linea retta del proprietario) con il divieto di alienarle per cinque anni (v. art. 3 co. 6).

(“il Corriere de iure publico” n. 7/8 – luglio, agosto 2009)

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