Il Patto di famiglia

Il Patto di famiglia, introdotto nel codice civile dalla n. 55/2006 (attraverso l’inserimento nel medesimo codice degli artt. 768 bis-768 octies), rappresenta un’importante innovazione in materia di successione aziendale perché consente all’imprenditore di trasferire ai propri discendenti i beni d’impresa senza che tale passaggio possa essere successivamente assoggettato ad azioni di collazione[1] ovvero di riduzione[2] da parte dei legittimari[3].

La ratio dell’istituto, come precisa la relazione che accompagna il testo legislativo, è infatti quella di garantire all’imprenditore “la possibilità di disporre in vita della propria azienda in favore dei propri discendenti”.

Ai sensi dell’art. 768 bis, pertanto, é “patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, …, ad uno o più discendenti”.

Tale finalità è garantita dalla espressa deroga:

  1. alla disciplina delle successioni (“quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”; v. art. 768 quater 4);
  2. alla disciplina generale dei contratti (il patto può essere impugnato dai partecipanti, ex artt. 1427 e ss. c.c., per vizi del consenso: errore, violenza o dolo, entro il termine prescrizionale di un anno[4]; v. art. 768 quinquies).

In merito alla deroga sub a) che rappresenta il vero aspetto innovativo del contratto in esame, va osservato che il momento in cui il Patto acquista valore definitivo per gli interessati varia a seconda della sua tipologia.

Infatti, ove si tratti di Patto di Famiglia cd. semplice (ovvero vi abbiano partecipato solo gli assegnatari per mancanza di altri legittimari) tale effetto è contestuale alla sottoscrizione del Patto (sempre che, alla data del decesso dell’imprenditore, non vi siano legittimari sopravvenuti nel qual caso, invece, lo stesso si produrrebbe nel momento in cui anche loro siano stati soddisfatti).

Se il Patto appartiene invece alla categoria di quelli cd. complessi (ovvero vi abbiano preso parte anche legittimari non assegnatari), tale effetto si produce al momento della soddisfazione dei legittimari non assegnatari; resta ferma anche in questo caso la necessità di verificare l’eventuale sopravvenienza di legittimari alla data del decesso dell’imprenditore.

A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico (v. art. 768 ter). Possono essere destinatari del trasferimento di azienda solo i discendenti dell’imprenditore (v. art. 768 bis), ma al patto devono necessariamente partecipare: il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari[5] ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore anche se non risultino assegnatari (art. 768 quater co. 1).

Si osserva in proposito che, secondo un orientamento dottrinario, la mancata partecipazione di uno solo dei predetti legittimari determinerebbe la nullità del Patto per contrarietà a norme imperative; secondo un altro orientamento invece, da tale circostanza deriverebbe solo la non opponibilità di quanto contenuto nel contratto al legittimario che non lo abbia sottoscritto.

Il destinatario dell’assegnazione è, poi, tenuto a liquidare quanto corrispondente alla quota di legittima, ex artt. 536 e ss. c.c., agli altri legittimari attuali (che non risultino assegnatari e che non vi abbiano espressamente rinunciato; v. art. 768 quater co. 2) nonché agli eventuali legittimari sopravvenuti (in tal caso l’attribuzione va accresciuta con gli interessi nel frattempo maturati; v. art. 768 sexies co. 1). L’inosservanza di quanto previsto in favore dell’eventuale legittimario sopravvenuto legittima quest’ultimo ad impugnare il patto (id. u.c.).

In proposito va anzitutto chiarito che non possono essere considerati legittimari sopravvenuti coloro che abbiano acquistato detta qualifica per premorienza del proprio dante causa (ai sensi dell’art. 536 u.c.), a sua volta discendente dell’imprenditore, poiché gli stessi subentrano nella medesima posizione del loro dante causa il cui diritto é già stato liquidato.

Considerato lo scopo delle disposizioni in esame, si ritiene poi che la base per il calcolo della quota di legittima (che si pretenda lesa) sia esclusivamente quella del valore dell’azienda trasferita.

Si precisa inoltre che l’eventuale rinuncia del legittimario é comunque limitata ai soli beni che abbiano formato oggetto del Patto.

Infine, gli eventuali beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti (non assegnatari dell’azienda) sono imputati alle quote di legittima loro spettanti secondo il valore attribuito in contratto; tale assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia “espressamente dichiarato collegato al primo” e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto (v. art. 768 quater co. 3).

Il Patto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che lo hanno concluso nei seguenti modi (v. art. 768 septies):

1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo (allo stesso dovranno partecipare tutti i precedenti contraenti e gli eventuali legittimari sopravvenuti);

2) mediante recesso, se espressamente previsto nel Patto e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un Notaio. Secondo una parte della Dottrina il recesso (anche se previsto) va comunque esercitato entro un anno dalla sottoscrizione del Patto (v. art. 768 quinquies co. 2); in ogni caso, dovrebbe restare ferma la possibilità del recesso per giusta causa (ai sensi del combinato disposto degli artt. 809[6] e 801 c.c.).

Ai sensi dell’art. 768 octies, infine, le controversie derivanti dai contratti in esame sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 38 d.lgs. n. 5/2003. Si segnala in proposito che il menzionato art. 38 cit. è stato abrogato dall’art. 23 d.lgs. n. 28/2010 e, di fatto, sostituito dall’art. 5 co. 1 del medesimo d.lgs. n. 28/10 il quale, a sua volta, ha introdotto l’obbligo di preventivo esperimento del tentativo di mediazione per le controversie relative a Patti di famiglia.

Tale ultima disposizione, però, è stata di recente dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (la sentenza è attualmente in corso di pubblicazione).

(Ottobre 2012)

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[1] L’azione di collazione impone ai figli legittimi e naturali (nonché ai loro discendenti legittimi e naturali) di conferire nell’eredità quanto ricevuto in vita dal defunto, sia per donazione diretta che indiretta; v. art. 737 co. 1 c.c..

[2] L’azione di riduzione, invece, è destinata a reintegrare la quota dei legittimari che risulti inferiore a quella prevista per legge al momento dell’apertura della successione (v. artt. 553 e ss. c.c.).

[3] Ai sensi dell’art. 536 c.c., sono legittimari: il coniuge, i figli – legittimi, naturali, legittimati e adottivi – e gli ascendenti legittimi nonché, in caso di premorte dei fgli legittimi e naturali, i relativi discendenti.

Agli stessi la legge riserva una quota di eredità o alti diritti nella successione

[4] Il termine di prescrizione dell’azione in esame è, invece, normalmente di cinque anni (v. art. 1442 co. 1 c.c.).

[5] V. nota 6.

[6] Tale disposizione estende a tutte le liberalità le norme che consentono la revocazione delle donazioni per ingratitudine.

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